Il messaggio del libro di Gioele Meditazione di Quaresima 2020 per i diaconi

In questi giorni il Signore ci sta facendo vivere una Quaresima del tutto diversa dalle altre, in
cui la preoccupazione per la situazione sanitaria ci spinge a rivolgergli una supplica di salvezza
con rinnovata intensità e il deserto lasciato dal vuoto di attività ci chiede di rientrare in noi stessi,
per ripensare in modo nuovo le nostre priorità. In questo senso anche l’impossibilità di poter fare
insieme il ritiro ci chiede di vedere questo momento in una luce nuova, non tanto come un gesto
di routine spirituale, quanto invece come un momento profondamente necessario al nostro spirito,
mediante un incontro vivo e vero con Lui.
Per questo, volendo farvi giungere in ogni caso una meditazione che potesse esservi di aiuto
per un momento di preghiera e di riflessione al cospetto del Signore, ho pensato di accantonare il
tema previsto e di rifarmi invece al libro di Gioele – presente nella Liturgia delle Ceneri con un
brano famoso –, perché ritengo che possa essere un testo biblico molto opportuno per rileggere in
un’ottica di fede questo nostro tempo.
Si tratta di un piccolo libro di soli quattro capitoli, scritti da un non meglio noto “Gioele, figlio
di Petuel” (1,1), tanto che qualcuno – soffermandosi sul significato del suo nome: “Jhwh è Dio” –
ha anche ipotizzato che sia uno pseudonimo. Forse si tratta di un profeta cultuale che sta presso il
Tempio di Gerusalemme, come lo erano Abacuc e Naum; di sicuro appartiene alle classi più alte
della città, viste le sue capacità poetiche e l’ampia conoscenza dei profeti che lo hanno preceduto,
a cui si rifà con abbondanza. Vive in un imprecisato momento del post-esilio, forse tra il V e il IV
secolo a.C., in un’epoca in cui Israele è ridotto alla regione della Giudea, sottomessa all’impero
persiano: Gerusalemme perciò non ha più un re, ma solo una limitata autonomia politica, portata
avanti da un’oligarchia, mentre il principale punto di riferimento per il popolo è il Tempio e il suo
sacerdozio. L’occasione di questo suo scritto è una devastante invasione di cavallette, che mette
in ginocchio la società e l’economia del piccolo territorio giudeo, evento che Gioele rilegge alla
luce della fede nel Dio d’Israele, prima dando un senso teologico all’evento stesso (cap.1-2), poi
ripensando più in generale i rapporti tra Dio e l’intero divenire storico (cap.3-4).
La prima parte del suo scritto si apre con un grido di dolore per quanto sta accadendo:
1,2
Udite questo, anziani, e porgete l’orecchio, voi tutti abitanti del contado. Accadde mai cosa simile
ai giorni vostri o ai giorni dei vostri padri? 3

Raccontatelo ai vostri figli e i vostri figli ai loro figli e i

loro figli alla generazione seguente! 4

Quello che ha lasciato la cavalletta l’ha divorato la locusta;
quello che ha lasciato la locusta l’ha divorato il bruco; quello che ha lasciato il bruco l’ha divorato il
grillo!
Gioele si rivolge alle autorità della città (gli anziani) e agli abitanti delle campagne circostanti,
descrivendo quest’invasione delle cavallette come un evento inaudito che, ad ondate successive –
cavalletta, locusta, bruco, grillo – sta rovinando ogni cosa nei campi. A questo flagello poi si
aggiungerà anche la siccità, due eventi che nel mondo agricolo dell’antica Palestina significavano
carestia e morte per tutti (cfr. Am 7,1-3; 1Re 17,1; Ger 14,1-6).
Gioele poi continua la descrizione della distruzione, chiamando in causa alcuni personaggi:
1,5
Svegliatevi, ubriachi, e piangete, voi tutti che bevete vino, urlate per il vino nuovo che vi è tolto
di bocca. 6

Poiché un popolo invade il mio paese, serrato e innumerevole, che ha denti di leone e

mascelle di leonessa. 7

Trasforma i miei vigneti in una desolazione, riduce i fichi a monconi; pela,

scorteccia fino al bianco dei rami. 8

Laméntati, come una giovane che si è cinta di sacco per il lutto

dello sposo della sua giovinezza. 9

Sono scomparse offerta e libagione dalla Casa del Signore; fanno
lutto i sacerdoti che servono il Signore. 10Devastata è la campagna, è in lutto la terra, perché il grano
è perso, il vino nuovo è venuto a mancare, l’olio è irrancidito. 11Delusi i contadini, si lamentano i
vignaioli per il grano e per l’orzo, perché il raccolto dei campi è perduto. 12La vite è diventata secca,
il fico marcito, il melograno, la palma, il melo, tutti gli alberi dei campi sono seccati e si è seccata
anche la gioia tra i figli dell’uomo.

La distruzione sembra non risparmiare nulla, con effetti che dalla campagna si ripercuotono
fino a Gerusalemme: l’intero territorio è in lutto, la città è come una fidanzata che ha subìto la
morte improvvisa del proprio promesso sposo, l’allegria di ognuno si è seccata insieme agli alberi
scortecciati. Le cavallette sembrano poi così inarrestabili nella loro voracità da essere paragonate
ad un esercito di leoni affamati.
In questo contesto si leva la voce del profeta, che chiama in causa anzitutto gli ubriachi della
città, cioè coloro che sono abituati a stordirsi con il vino (Is 5,11; 28,7-8) e a non curarsi di nulla
(Am 4,1), ora costretti a svegliarsi per la sciagura che è arrivata (Is 28,1-3), se non altro perché è
finito il vino che consentiva loro di spassarsela: volenti o nolenti, anche i devoti della movida di
allora devono rinunciare al loro spritz e cominciare a fare i conti con la realtà. Gioele tratteggia
poi la situazione dei sacerdoti, in lutto perché con la fine delle derrate alimentari non è nemmeno
più possibile officiare il sacrificio al Tempio: la situazione è così grave che si deve interrompere
il culto, segno del legame d’alleanza con Dio. Infine il profeta volge lo sguardo ai contadini, che
più di tutti hanno il polso della situazione: essi guardano disperati quello che si presenta come un
danno economico irreparabile. Le analogie con la nostra situazione sono di per sé evidenti.
Gioele passa quindi a delineare una prima lettura religiosa dell’accaduto, collocata all’interno
di una convocazione del popolo per una celebrazione penitenziale:
1,13Vestitevi a lutto, o sacerdoti, gemete, ministri dell’altare; venite a dormire sulle stuoie, ministri
del mio Dio, perché priva d’offerta e libazione è la Casa del vostro Dio. 14Proclamate un digiuno,
convocate l’assemblea, radunate gli anziani e tutti gli abitanti del contado nella Casa del Signore,
vostro Dio, e gridate al Signore: 15«Ah, che giorno! È infatti vicino il giorno del Signore, verrà
come devastazione dell’Onnipotente. 16Non è forse scomparso davanti ai nostri occhi il cibo, la
festa e la gioia nella Casa del nostro Dio?». 17Si sono seccati i semi sotto le loro zolle, i granai sono
vuoti, desolati i magazzini, perché è venuto a mancare il grano. 18Come geme il gregge, com’è
inquieta la mandria, perché non hanno più pascoli; anche le pecore vanno in rovina. 19A te, Signore,
io grido, perché il fuoco ha divorato i pascoli della steppa, la canicola brucia tutti gli alberi della
campagna. 20Perfino gli animali selvatici ruggiscono verso di te, perché sono secchi i sentieri delle
mandrie e il fuoco ha divorato i pascoli della steppa.
Il profeta invita i sacerdoti, i capi del popolo e tutti gli abitanti della Giudea a fare penitenza e
partecipare ad una supplica comunitaria, per presentare a Dio la gravità di ciò che sta accadendo:
la compresenza di cavallette e siccità è una rovina così grande che perfino gli animali selvaggi
supplicano, perché anche loro non hanno più cibo (Sal 104,21).
La preghiera descrive anzitutto la reazione a catena che è giunta ad intaccare il culto, come a
dire che la catastrofe riguarda anche Dio: la devastazione dei campi ha prodotto lo svuotamento
dei depositi e questo ha tolto il cibo non solo dalle tavole (“è scomparso davanti ai nostri occhi il
cibo”), ma anche dall’altare (“è scomparsa la festa e la gioia nella Casa del nostro Dio”).
In questo contesto di preghiera c’è l’invito a una prima lettura di fede: “È vicino il giorno del
Signore, verrà come devastazione dell’Onnipotente”. Il flagello potrebbe essere solo una tappa di
un evento ancora più tremendo, quello del giorno del Signore, che tradizionalmente in passato era
inteso come il momento glorioso dell’intervento immancabile di Dio in favore di Israele, ma che
la predicazione dei profeti aveva insegnato a vedere piuttosto come quell’intervento di giudizio di
Dio in primo luogo nei confronti del suo popolo, infedele ma illuso di aver comunque sempre Dio
al proprio fianco (Am 5,18-19; Is 13,6-9; Sof 1,2-18; Ez 30,1-3). Emerge quindi l’idea che tutto
ciò che sta accadendo sia una conseguenza del peccato di Israele, che Dio avrebbe cominciato a
punire con severità, come la vigna sterile della parabola di Isaia (Is 5,5-7) e come la carestia di
cui parlava Amos, quando dichiarava a nome di Dio: “Vi ho colpito con ruggine e carbonchio, vi
ho inaridito i giardini e le vigne; i fichi, gli oliveti li ha divorati la cavalletta: e non siete tornati a
me, dice il Signore” (Am 4,9).
Anche oggi, dopo aver colto la gravità della situazione, nel credente sorge spontanea l’idea che
tutto ciò stia avvenendo per una qualche colpa davanti a Dio, che ora sarebbe adirato con noi.

In ogni caso la supplica comunitaria di Israele non sembra sortire effetto, perché l’invasione
delle cavallette non si arresta, anzi giunge fino a Gerusalemme:
2,1Suonate il corno in Sion e date l’allarme sul mio santo monte! Tremino tutti gli abitanti del
contado perché viene – è ormai prossimo – il giorno del Signore, 2

giorno di tenebra e di oscurità,

giorno di nube e di caligine. Come crepuscolo che si stende sui monti è l’esercito denso e nume-
roso: come questo non ce n’è stato mai e non ce ne sarà dopo, per gli anni futuri, di età in età.

3
Davanti a lui un fuoco divora e dietro a lui brucia una fiamma. Come il giardino dell’Eden è la
terra davanti a lui e dietro a lui è un deserto desolato; non si salva nulla. 4

Il suo aspetto è quello di

cavalli, di cavalieri al galoppo; 5

come fragore di carri che rotolano sulle montagne, come crepitìo di
fiamma avvampante che brucia la paglia, come esercito numeroso in formazione per la battaglia.
6
Davanti a lui tremano i popoli, i volti impallidiscono. 7

Corrono come soldati, agguerriti scalano le

mura; ognuno avanza nella sua linea, senza scompigliare le fila. 8

Nessuno intralcia il compagno,

ognuno avanza per la propria strada, anche se piovono frecce non si sbandano. 9

Piombano sulla
città, scalano le mura, salgono sulle case, penetrano dalle finestre come ladri. 10Davanti a loro la
terra trema, il cielo si scuote, il sole e la luna si oscurano e le stelle cessano di brillare. 11Il Signore
fa udire la sua voce dinanzi alla sua schiera: potenti sono gli esecutori dei suoi ordini! Grande e
terribile è il giorno del Signore: chi resisterà?
L’arrivo delle cavallette in città è descritto da Gioele in modo magistrale, come l’assalto di un
esercito nemico, dotato di forze irresistibili e di truppe di consumata esperienza: anzitutto risuona
il corno, dando l’allarme dell’arrivo del nemico (Am 3,6; Ez 33,1-8), poi avanzano le cavallette,
il cui zampettio è come galoppo di cavalleria, il rumore delle loro ali è come fragore di ruote dei
carri da guerra, il suono fatto dalle loro mandibole che divorano tutte le piante è come crepitio del
fuoco di un incendio. Prima del loro passaggio c’era un giardino come quello dell’Eden, dopo di
loro rimane soltanto un deserto (Is 51,3; Ez 36,35). Prendono quindi d’assalto le mura, avanzando
ordinate come prodi disciplinati sotto il fuoco nemico, fino ad invadere tutta la città. La loro forza
irresistibile li fa vedere come fedeli emissari del Signore, che quindi pare essere il loro mandante.
Contemporaneamente il profeta fa continui riferimenti al tremendo giorno del Signore, “ormai
prossimo”, e agli eventi cosmici che lo accompagnano (Is 13,10; 30,30; Ez 32,7; Mal 3,2; 4,5) –
terra e cielo sono sconvolti, gli astri si oscurano e le tenebre cominciano ad avvolgere il mondo –,
una descrizione che farà scuola anche nel NT, dal discorso escatologico dei sinottici (Mc 13,24-
25; Mt 24,21.29; Lc 21,25) fino all’Apocalisse (Ap 6,17; 9,7-9). Sorge quindi la domanda, piena
di angoscia: “Grande e terribile è il giorno del Signore: chi resisterà?”
Gioele tuttavia non si rassegna, perché il giorno del Signore è sì imminente, tuttavia c’è ancora
tempo per volgersi a Lui, quindi invita il popolo ad una seconda convocazione liturgica, per una
nuova e diversa supplica comunitaria, quella letta durante il Mercoledì delle Ceneri:
2,12
«Ebbene – oracolo del Signore – convertitevi a me con tutto il cuore, con digiuno, pianto e lutto. 13Stracciatevi il cuore, non le vesti; convertitevi al Signore, vostro Dio, perché è compassionevole e
clemente, lento all’ira e misericordioso, pronto a pentirsi delle minacce».

14Chissà che non si penta
e non torni, lasciando sui suoi passi benedizione, offerta e libazione per il Signore, vostro Dio!
15Suonate il corno in Sion, proclamate un digiuno, convocate una riunione, 16radunate il popolo,
purificate l’assemblea, riunite i vecchi, raccogliete i fanciulli e i lattanti; esca lo sposo dalla camera
e la sposa dal talamo; 17fra l’atrio e l’altare piangano i sacerdoti, i ministri del Signore dicano:
«Signore, perdona il tuo popolo e non esporre la tua eredità all’obbrobrio, non la sottomettano i
pagani, non si dica fra i popoli: Dov’è il loro Dio?». 18Il Signore sia geloso della sua terra e si
muova a compassione del suo popolo!
Diversi elementi segnalano la differenza di questa nuova convocazione rispetto alla precedente,
mentre il suono del corno ora non indica più l’arrivo del nemico, bensì la chiamata del popolo al
Tempio:

  • se la prima era un convenire spontaneo del popolo, pur su invito del profeta, ora risuona un
    invito esplicito di Dio a venire a Lui;
  • se prima erano convocati gli adulti maschi, ora sono coinvolti tutti, anche chi solitamente non
    era chiamato a far penitenza, come i bambini, con un’invocazione corale del popolo (Gio 3,7-8);
  • se prima ci si limitava alla supplica, ora si chiede una conversione profonda, che non si limiti
    a parole e gesti formali, ma tocchi il nucleo del proprio rapporto con Dio: “Stracciatevi il cuore,
    non le vesti”;
  • se prima la richiesta era ancora in fondo contrassegnata dall’idea che Dio fosse obbligato ad
    intervenire a favore del suo popolo (Os 6,1-3), ora si lascia a Lui la libertà di intervenire o meno:
    “Chissà che non si penta e non torni!” (Gio 3,9)
    Quindi Gioele non sta sollecitando a far penitenza un popolo peccatore che non ne vuol sapere
    (Is 22,12-14), ma chiede a questo, attraverso la penitenza, di riprendere a un livello più profondo
    il rapporto con Dio. E benché inviti a convertirsi a Dio affinché Dio si converta ad Israele, il
    motivo ultimo del volgersi benevolo di Dio non consiste nella supplica, nella penitenza e neanche
    nell’ammissione di un qualche particolare peccato da parte di Israele, bensì nell’identità di Dio
    stesso, “compassionevole e clemente, lento all’ira e misericordioso” (Es 34,6; Sal 86,15; Sal
    103,8; Sal 145,8; Gio 4,2; Ne 9,17), quel volto d’amore che Israele è chiamato a riconoscere in
    modo nuovo. Che in gioco ci sia la relazione con Dio ne è prova anche il fatto che la supplica è
    motivata non più tanto dalla catastrofe economica e sociale accaduta, ma dal buon nome di Dio
    tra i pagani – “Non si dica fra i popoli: Dov’è il loro Dio?” – e dalla possibilità almeno di
    celebrare il culto a Lui: “Chissà che non si penta e non torni, lasciando sui suoi passi benedizione,
    offerta e libazione per il Signore, vostro Dio!”
    Qui c’è lo snodo centrale del libro di Gioele, valido anche per i nostri tempi: non si tratta di
    constatare la gravità della situazione, né di elevare suppliche facendo chissà quali penitenze, né di
    indagare su quali peccati abbiamo commesso per meritarci questo, ma di tornare a Lui con tutto il
    cuore, convinti che l’incontro con il suo volto e l’esperienza del suo amore possano già cambiare
    la situazione, accada quel che accada. E le uniche richieste da fare riguardano in fondo ciò che
    Gesù ci ha detto, quando ci ha insegnato a pregare: la manifestazione nel mondo della signoria di
    Dio – “sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà” – e la possibilità di
    nutrirci dell’incontro con Lui (“dacci oggi il nostro pane quotidiano”), affidando poi a Lui la
    possibilità di essere liberati dai nostri mali (“liberaci dal male”).
    Dopo questa seconda supplica comunitaria, Dio non fa mancare la propria risposta:
    2,19Allora il Signore ha risposto al suo popolo: «Ecco, io vi mando il grano, il vino nuovo e l’olio a
    sazietà; non vi renderò più il ludibrio dei pagani; 20allontanerò da voi ciò che viene dal settentrione,
    lo disperderò in una terra arida e desolata: spingerò la sua avanguardia verso il mare orientale e la
    sua retroguardia verso il mare occidentale. Esalerà il suo lezzo, salirà il suo fetore, perché ha tentato

di compiere prodezze. 21Non temere, terra, ma rallégrati e gioisci, poiché il Signore ha fatto pro-
dezze. 22Non temete, animali selvatici, perché i pascoli della steppa germoglieranno, gli alberi

daranno frutti, la vite e il fico daranno le loro ricchezze. 23Voi, figli di Sion, rallegratevi, gioite nel
Signore, vostro Dio, perché vi dà la prima pioggia nella sua stagione, la pioggia autunnale come in
passato, riversa per voi acquazzoni. 24Le aie si riempiranno di grano, i tini traboccheranno di vino
nuovo e di olio. 25Vi compenserò per le annate divorate dalla locusta e dal bruco, dal grillo e dalla
cavalletta, mio grande esercito che ho inviato contro di voi. 26Mangerete fino a saziarvi e loderete il
Signore, vostro Dio, che per voi ha fatto meraviglie; 27saprete che io sono in mezzo a Israele e il
mio popolo non rimarrà deluso. Io sono il Signore, vostro Dio, non ce n’è un altro, e il mio popolo
non rimarrà deluso».
La promessa di Dio riguarda anzitutto la fine del flagello (Mal 3,11): le cavallette, venute da
nord come ogni invasione, devieranno verso il Mar Morto (“mare orientale”) e il Mediterraneo
(“mare occidentale”), disperdendosi e morendo in zone desertiche, come un contrappasso per chi
ha reso deserta la Giudea. Infatti loro – e non Israele – saranno punite, perché hanno sfidato la
sovranità di Dio “tentando di compiere prodezze”, cioè dando l’impressione di avere un potere
assoluto sull’uomo come se fossero Dio, quando invece solo “il Signore ha fatto prodezze”.

Poi la promessa riguarda il ribaltamento delle sorti: le cavallette, come sono venute, se ne
andranno e la terra ritornerà ad essere un giardino, perché le piogge cadranno con regolarità e la
terra darà frutti abbondanti (Dt 11,13-15), sia per il popolo che per le bestie selvatiche. E a quel
punto Israele potrà elevare la lode a Dio, mentre banchetterà gioiosamente.
Il motivo di tutto ciò è di nuovo riposto in Dio: se la rovina di Israele poteva far dire ai pagani
“Dov’è il vostro Dio?”, il ribaltamento delle sorti dimostrerà di che pasta è fatto il Dio di Israele.
Ecco allora le confessioni di fede, che si susseguono nel finale: “Dio per voi ha fatto meraviglie”,
“io sono in mezzo a Israele” e soprattutto la proclamazione di quel monoteismo assoluto che era
stato il marchio di fabbrica del secondo Isaia: “Io sono il Signore, vostro Dio, non ce n’è un altro”
(Is 45,5.6.18.21; 46,9).
Vale anche per noi questo discorso di Gioele: se anche ci sembra che sia il virus a governare il
mondo, mentre i rimedi umani dimostrano tutti i loro limiti, di fatto chi ha la effettiva signoria sul
mondo è solo il Signore e Lui ce lo dimostrerà, quando il flagello passerà e si potrà tornare alla
gioia e alla lode del suo Nome.
L’annuncio del ribaltamento delle sorti dà poi modo a Gioele di gettare lo sguardo sui tempi
ultimi, come a confermare in modo irreversibile che è Dio l’unico signore del tempo e della storia,
una preoccupazione che troviamo pure in altri profeti come Aggeo, Zaccaria e Daniele. Qui inizia
la seconda parte del libro incentrata sull’escatologia, cioè sui tempi ultimi e definitivi.
3,1Riverserò poi su tutti il mio Spirito: i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri anziani
faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. 2

Anche sui servi e le serve in quel giorno riverserò il

mio Spirito. 3

Farò prodigi in cielo e sulla terra, sangue e fuoco e fumo; 4

il sole apparirà oscuro e la

luna insanguinata, prima che venga il giorno del Signore, grande e terribile. 5

Chiunque invocherà il
nome del Signore, sarà salvato, poiché sul monte Sion rimarrà un resto – lo dice il Signore – e a
Gerusalemme i sopravvissuti, da Lui convocati.
Gioele ripresenta gli elementi classici del giorno del Signore (Ap 6,12): l’apparire tremendo di
Dio, in mezzo a segni cosmici grandiosi, che libererà il suo popolo instaurando un nuovo ordine
del mondo. E se questi segni alludono a tempi di morte, emerge tuttavia una forte rassicurazione
per i sopravvissuti: a Gerusalemme, descritta come città-rifugio essendo il luogo della presenza
del Signore, potrà accedere salvando così la propria vita chi invocherà quella parola d’ordine che
è il nome del Signore (“chiunque invocherà il nome del Signore”), quindi facendo la professione
di fede in Lui.
Tuttavia l’elemento più originale di questo passo è l’annuncio di un’effusione dello Spirito su
tutto il popolo e non più solo su alcuni privilegiati: sarà come un liquido che inzupperà Israele
(“riverserò”; Ez 39,29), consentendo a tutti di parlare in nome suo, adempimento dell’augurio che
Mosé aveva fatto, quando aveva replicato a Giosuè che si lamentava che lo Spirito fosse disceso
anche su due che non erano tra i settanta designati (Num 11,24-29). Si tratta quindi di un’azione
potente dello Spirito che dà la vita (Ez 37,1-10), che consente a tutti di fare esperienza diretta di
Dio. Tutto questo brano sarà citato da Pietro nel discorso di Pentecoste (At 2,17-21), omettendo
però la seconda parte dell’ultimo versetto, quella con la menzione di Sion e di Gerusalemme, per
aprire ancora di più l’orizzonte di questa profezia in senso universalistico (Rom 10,13): grazie a
Cristo risorto, che ha donato il suo Spirito in abbondanza, ogni uomo – anche non proveniente da
Israele – avrà la possibilità di fare un’esperienza intima e personale di Dio.
In questo senso Gioele non promette un intervento di Dio che risolva tutti i problemi di Israele,
ma annuncia la possibilità di salvezza per chi si affida al Signore e la possibilità per tutti di un
incontro vivo con Lui. Anche per noi oggi la promessa di Dio per il futuro non è essere esentati da
difficoltà e angosce, né conoscere in anticipo gli eventi futuri, ma sapere che Dio è con noi e ci
starà ancora più vicino, accada quel che accada.
Infine lo sguardo profetico di Gioele si volge al giudizio ultimo di Dio, quando farà giustizia di
tutte le iniquità, perché un mondo secondo Dio non può che essere un mondo senza ingiustizie:

4,1Poiché ecco in quei giorni e in quel tempo, quando cambierò le sorti di Giuda e Gerusalemme,
2
riunirò tutte le nazioni pagane e le farò scendere nella valle di Giòsafat; là le giudicherò per i loro
delitti contro il mio popolo e la mia eredità, perché dispersero Israele fra le nazioni, si ripartirono la
mia terra, 3

tirarono a sorte il mio popolo; hanno scambiato un fanciullo con una prostituta, hanno

venduto una prostituta per qualche sorso di vino. 4

Anche voi, Tiro e Sidone, voi regione della Fili-
stea, che volete da me? Vorreste prendervi la rivincita e vendicarvi di me? Ecco, molto presto farò

ricadere sul vostro capo il male compiuto, 5

perché avete rubato il mio oro e il mio argento, avete

portato nei vostri templi i miei tesori preziosi, 6

avete venduto ai greci i figli di Giuda e di Gerusa-
lemme allontanandoli dalla loro patria. 7

Ecco, io li trarrò fuori dal paese dove li avete venduti e farò

ricadere sul vostro capo il male compiuto. 8

Venderò ai figli di Giuda i vostri figli e le vostre figlie

ed essi li venderanno al popolo lontano dei Sabei. L’ha detto il Signore.
Il primo momento del giudizio è l’annuncio del ribaltamento delle sorti tra Israele e le nazioni
pagane, quando queste ultime saranno riunite in una vallata dal nome programmatico: Giòsafat,
cioè “Il Signore giudica”. Si tratterà di un contrappasso: hanno venduto, perciò saranno vendute a
loro volta (Abd 15-18). Da notare che l’annuncio della punizione non è motivato dal loro essere
nazioni pagane, cioè non credenti del Dio di Israele, ma perché hanno compiuto delle ingiustizie
verso il prossimo, quale che esso sia, un tema ben presente fin dai tempi di Amos (Am 1,3-2,3).
Si tratta di un aspetto importante anche per noi, talvolta tentati di chiedere a Dio di intervenire
non tanto perché in questo mondo regni la sua giustizia, quanto perché Egli si mostri partigiano
nei nostri confronti, visto che noi siamo – o riteniamo di essere – dalla sua parte.
4,9
Proclamatelo tra le genti pagane: preparatevi per la guerra santa, reclutate soldati, vengano tutti i
guerrieri; 10con i vostri vomeri fatevi spade, lance con le vostre falci; anche il più codardo dica:
«Sono un guerriero».

11Venite, voi tutte nazioni pagane dei dintorni, radunatevi là: il Signore farà
scendere i suoi prodi. 12Si affrettino e vengano le nazioni pagane nella valle di Giòsafat, lì siederò

per giudicare tutte le nazioni pagane dei dintorni. 13Mano alla falce, la messe è matura: venite e pi-
giate, il torchio è pieno; le botti traboccano, poiché abbonda la malvagità, 14folle, ancora folle nella

valle della Decisione, viene il giorno del Signore nella valle della Decisione. 15Si oscurano sole e

luna, gli astri trattengono il loro splendore. 16Il Signore ruggirà da Sion, alzerà la voce a Gerusa-
lemme, tremeranno i cieli e la terra; il Signore sarà rifugio del suo popolo, fortezza degli israeliti.

17E saprete che io sono il Signore, vostro Dio, che abito in Sion, il mio monte santo; Gerusalemme
sarà santa, non l’attraverseranno più gli stranieri.
Il secondo momento del giudizio consiste nel combattimento escatologico tra il Signore e tutti
i cattivi radunati, un tema ripreso più volte nella Scrittura (Zc 14,1-15; Ap 20,7-9), nonché nella
cinematografia moderna. L’evento è descritto da Gioele come una trappola ordita da Dio, in cui
finiscono le nazioni pagane, attratte dall’illusione di una facile vittoria: verranno falcidiate come
il grano al momento della trebbiatura e schiacciate come l’uva nel torchio (Is 63,3; Ap 14,15-20;
19,15. Questa descrizione, un po’ troppo truculenta per la nostra sensibilità, ha però lo scopo di
proclamare l’assoluta signoria di Dio sul mondo: quello che avverrà sarà come il ruggito di Dio,
potente come un leone (Am 1,2), affinché Israele sappia davvero chi è il Signore (Ez 36,11).
4,18In quel giorno le montagne stilleranno vino nuovo, il latte scorrerà per le colline, in tutti i sentieri
delle mandrie di Giuda scorreranno le acque. Una sorgente zampillerà dalla casa del Signore e
irrigherà il Torrente delle Acacie. 19L’Egitto tornerà deserto, Edom steppa desolata, perché fecero
violenza contro i figli di Giuda e sparsero sangue innocente sparso nel paese, 20mentre Giuda sarà
abitata per sempre, Gerusalemme di generazione in generazione. 21Vendicherò il loro sangue, non
rimarranno impuniti, e il Signore dimorerà in Sion.
Avvenuto il giudizio ultimo, Israele potrà vivere nella pace e nell’abbondanza, stando attorno
al Tempio del Signore, fonte di un’acqua che darà vita ad ogni cosa (Ez 47,1-12; Zc 14,8; Ap
22,1-2), quindi Israele vivrà stando vicino a Dio, fonte della vita. Questo ci auguriamo di poter
contemplare nell’ultimo giorno, in cui vedremo Dio faccia a faccia, e questo vogliamo annunciare
anche ora, come diaconi della sua Parola di vita. don Daniele Moretto