Il virus, il dolore e il silenzio di Dio Quando la preghiera diventa “grido”

Perché è capitato a noi? Perché Dio non interviene a salvarci? L’antico grido, che da
sempre abita il cuore dell’uomo dinanzi al mistero della sofferenza, è oggi l’unica
preghiera possibile. Siamo come Giobbe, che maledice il giorno della sua nascita
mentre le piaghe gli lacerano la carne; siamo come gli apostoli che, sballottati da una
tempesta di vento e di onde, urlano la loro protesta a un Gesù che dorme tranquillo:
possibile che non ti accorgi di noi? Svegliati, perché dormi?
È in questi momenti che raggiungiamo l’essenza profonda della nostra fede, quando
siamo chiamati a lodare e servire Dio non dentro le consolazioni di una vita tutto
sommato agiata e nella cornice di una tranquilla e pacifica religione borghese, ma
quando siamo gettati nell’arsura del deserto e nella notte oscura dell’angoscia, della
paura, del dolore e della non comprensione. Proprio in questi momenti, quando
riusciamo a vedere semi di grano che crescono laddove tutto parla di rami secchi, a
cogliere piccole luci nella notte, a vedere come Geremia il piccolo ramo di mandorlo
nel cuore dell’inverno, sperimentiamo ciò che propriamente si chiama “fede”. A patto
però che la forma di questa speranza non abbia nulla a che fare con l’ingenuità di una
religiosità puerile, con l’atteggiamento miracolistico di chi, in preda alla fatica di
reggere l’impatto del dolore, si aggrappa a eventi straordinari o, ancora, con il
sentimento della fuga per non affrontare l’aspro duello con il male. La speranza
cristiana, invece, sta nel sapersi e sentirsi accompagnati, dal di dentro del dolore, da
un Dio umano e compassionevole, che si fa vicino alle nostre ferite, non lascia
vacillare il nostro piede e rimane anche oggi il Dio che osserva la miseria del suo
popolo e scende per liberarlo ( Es3,7– 8). Dinanzi al non senso, la preghiera può farsi
grido, che inquieta l’infinito silenzio del cielo. Una preghiera di Giobbe, che abbraccia
il dolore di tutti i crocifissi della storia e assume la postura pienamente umana di
Gesù, il quale non “salta” l’ora della prova, ma vi entra dentro con angoscia e paura,
percorrendo la drammatica domanda che raccoglie, in questo momento, anche tutte
le nostre: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai dimenticato?» (Gv 20,17).
Mentre il nemico invisibile moltiplica i contagiati, mentre medici e infermieri sono allo
stremo e mentre a Bergamo sfila una drammatica marcia di militari che
accompagnano le salme, la preghiera deve farsi domanda: è possibile parlare di Dio
in un reparto di terapia intensiva per coronavirus? Quale Dio nominare in questa
Auschwitz di oggi? Quale Dio pregare quando ho perduto un genitore al quale non ho
potuto dare una carezza finale?
Sperimentiamo qui l’assenza di Dio. Giorni di deserto e di spoliazione, notte oscura
della fede simile a quella notte in cui la sposa del Cantico esce per cercare l’amato e
non lo trova: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho
cercato ma non l’ho trovato» (Ct 3,1). Ed è in questa esperienza che scopriamo una
paradossale vicinanza con l’ateo: «C’è in noi un ateo potenziale – scriveva il cardinal
Martini – che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere».
Quando nel maggio del 2006 papa Benedetto si recò ad Auschwitz fece risuonare il
dramma di questa preghiera nella notte: «Prendere la parola in questo luogo di
orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella
storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un
cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo

vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un
silenzio che è un interiore
grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto
questo?».
Eppure, questa preghiera concepita nel dolore non rimane inascoltata. Mentre
esprime il grido della nostra paura, anzitutto essa ci purifica dall’immagine di un Dio
che ci risponde a comando, che ci evita le lacrime, che interviene dall’alto per
risolvere i nostri problemi. Così, usciamo dall’interpretazione superstiziosa e magica
della religione e impariamo – come affermava il teologo tedesco Metz – che Dio non è
il tappabuchi delle nostre delusioni, ma la ragione del nostro sperare. Questa
preghiera concepita nel dolore ci fa anche diventare più umani e, quindi, più
compassionevoli e solidali verso gli altri. Il dolore ci scava dentro. Nella difficoltà e
nelle oscurità facciamo l’esperienza della nostra fragilità, cosicché abbandoniamo le
maschere fabbricate ad arte per nasconderla e o i surrogati della nostra società del
consumo per esorcizzarla. Siamo fragili e impariamo a benedire ciò che siamo,
svestendo i panni dell’onnipotenza: abbiamo bisogno dell’altro, da soli non possiamo
farcela e il suo dolore è anche e sempre il mio. Ma la preghiera nel dolore ci avvicina
soprattutto in modo unico all’esperienza di Gesù e alla sua preghiera: «La mia anima
è triste fino alla morte» ( Mc
14,34). Si avvicina per lui l’ora della notte.
Ma la notte del Cristo è a suo modo unico: in quel Getsemani sono raccolte anche
tutte le nostre notti, le oscurità della storia, le ingiustizie del mondo, le ferite dei
poveri, le paure che spesso ci abitano. È in quella notte che noi possiamo vedere Dio
proprio quando pensavamo di averlo perduto; entrando nella notte, infatti, Gesù ci
rivela chi è Dio: non uno che fa teorie sul dolore o ne stabilisce le colpe, ma il Dio che
entra nella notte, la soffre con te, accompagna la tua paura, si lascia toccare e ferire.
E si lascia inchiodare sulla Croce perché quella notte si apra alla luce di una nuova
vita.
Questa luce arriva inattesa, come l’alba del mattino di Pasqua. Può significare la fine
di quella sofferenza o semplicemente l’aver ricevuto la grazia di guardare alla vita in
modo nuovo. Certo è, che un miracolo succede e ha bisogno di occhi di fede. Forse
sta già avvenendo, se in mezzo all’indescrivibile sofferenza per tanti nostri fratelli
ammalati o già morti, sta cambiano il nostro sguardo sulle persone care e sulle cose,
sugli abbracci mancati e sul delirio di onnipotenza di questo nostro Occidente arrivato
ormai al capolinea. «Comprendete l’ora della tempesta e del naufragio – afferma il
teologo protestante Bonhoeffer – è l’ora della inaudita prossimità di Dio, non della sua
lontananza. Là dove tutte le altre sicurezze si infrangono e crollano e tutti i puntelli
che reggevano la nostra esistenza sono rovinati uno dopo altro, là dove abbiamo
dovuto imparare a rinunciare, proprio là si realizza questa prossimità di Dio, perché
Dio sta per intervenire, vuol essere per noi sostegno e certezza…Questo ci vuole
mostrare: quando tu lasci andare tutto, quando perdi e abbandoni ogni tua sicurezza,
ecco, allora sei libero per Dio e totalmente sicuro in Lui».
Nell’ora della notte e della prova, allora, pur dentro una preghiera sofferta,
cerchiamolo ancora. «Alziamoci, facciamo il giro della città, andiamo per le strade e
per le piazze a cercare l’amato del nostro cuore» ( Ct
3,1–2). E leviamo il capo, perché la nostra liberazione è vicina.
FRANCESCO COSENTINO ( Teologo, Pontificia Università Gregoriana)