Come rieducare alla partecipazione? (Andrea Grillo)

Da Rivista di Pastorale Liturgica Offerta in omaggio Numero speciale 2 in PDF giugno 2020
Andrea Grillo
Il necessario in presenza e il gratuito in azione
Come rieducare alla partecipazione?
La fine della Fase 2 riconsegna alla liturgia ecclesiale il compito della «partecipazione attiva», come
obiettivo qualificante la riforma liturgica. Lo «stato di minorità» per pandemia – unito allo «stato di
eccezione» per nostalgia – può essere superato con la ripresa del culto come azione di Cristo e della
chiesa, al cui servizio agiscono tutti i ministeri.
Quando per motivi medici si è costretti a una dieta stretta, non si va al ristorante. Quando per una frattura grave
si è ingessati, non si fa né maratona, né mezza maratona. La condizione di emergenza sanitaria, a cui la chiesa
ha dovuto rispondere prima con la sospensione di ogni celebrazione, poi con la firma del Protocollo, ha ridotto
grandemente gli spazi di espressione e di esperienza rituale. Questa ingessatura e questa dieta possono però
aprire un orizzonte formativo e partecipativo inatteso e forse anche sorprendente. Il gusto del «pasto comune»
e il gusto del «corpo in movimento» può risultare singolarmente potenziato, a patto che siamo disposti ad una
grande rilettura di ciò che alla chiesa cattolica è accaduto non negli ultimi 3 mesi, ma negli ultimi 60 anni.

  1. Un progetto di rilettura complessiva: il concilio
    Una corretta interpretazione della «crisi liturgica da pandemia» deve collocarsi nell’orizzonte del progetto
    liturgico conciliare: 60 anni fa maturava la coscienza della chiesa e si comprendeva che i riti del tempo, frutto
    della sintesi operata 450 anni prima dal concilio di Trento, erano in grave crisi. E che era necessario un
    aggiornamento – rituale ed ecclesiale – che superasse almeno due cause di questa crisi: la divisione del corpo
    ecclesiale in chierici e laici e l’attribuzione della liturgia soltanto ai chierici, con la riduzione dei non chierici a
    «muti spettatori».
  2. Una riformulazione della liturgia cattolica: la riforma
    La riforma successiva al concilio ci ha restituito, almeno potenzialmente, una condizione di privilegio: una
    accurata revisione di tutti i Rituali – dalla eucaristia alle benedizioni, passando per tutti i sacramenti, l’anno
    liturgico e la liturgia delle Ore – ha rimosso gli ostacoli che impedivano di comprendere la liturgia come
    «azione rituale comune di Cristo e della chiesa», favorendo così una nuova coscienza ecclesiale, pensata non
    più secondo il modello della divisione, ma secondo il modello della compartecipazione. In ogni atto rituale si
    manifesta una comunità celebrante i cui soggetti sono Cristo e la sua chiesa, costituita da tutti i battezzati, al
    cui servizio vi è un ministero di presidenza e altri ministeri.
  3. Le due conseguenze: la liturgia come linguaggio comune e la
    partecipazione attiva
    Ciò ha sviluppato, nei decenni successivi al concilio Vaticano II, una grande crescita di coscienza su questi due
    versanti della cultura ecclesiale comune, che tra loro sono strettamente correlati: da un lato la
    consapevolezza che nella azione rituale è sempre implicata la totalità della esperienza ecclesiale e che il
    linguaggio di questa azione è patrimonio comune; d’altro lato che nella actuosa participatio si manifesta e si
    costruisce una chiesa non clericale, la cui identità non è delegata ai chierici. Così la liturgia è il linguaggio della
    chiesa e la chiesa è la esperienza della liturgia. I soggetti di questo linguaggio sono Cristo e i battezzati, non i
    preti.
  4. Lo «stato di minorità» e lo «stato di eccezione»
    Nello sviluppo di questa crescita comune la crisi pandemica ha esasperato uno «stato di minorità» che
    corrisponde ad uno «stato di eccezione» ad esso precedente. L’idea che, a causa di una condizione di
    emergenza sanitaria, dobbiamo rinunciare a buona parte del «linguaggio comune» ha potuto affermarsi,
    simbolicamente, sulla base di una esperienza precedente, che aveva sospeso tale linguaggio comune da
    almeno 13 anni, rendendo possibile celebrare secondo i riti che il concilio Vaticano aveva superato. Così la
    «cultura liturgica da pandemia» ha potuto utilizzare alcuni argomenti assai rischiosi, come l’idea che la liturgia
    sia dei preti, che partecipare sia sostanzialmente un assistere e che la delega ai chierici sia sufficiente per
    assicurare una liturgia ecclesiale. Lo stato di minorità – dovuta a pandemia – si è alleato allo «stato di
    eccezione» – dovuto a miopia e a nostalgia.
  5. La ripresa del cammino conciliare
    Per la fine della Fase 2 – quando sarà – dovremo preparare la chiesa a uscire non solo dalla minorità
    necessaria, ma dalla minorità cultuale. Per farlo dovremo esplicitamente uscire da ogni stato di eccezione:
    l’unico rito romano è quello che costruisce una chiesa non clericale, che abilita tutti i soggetti all’atto di
    culto, che sviluppa un linguaggio liturgico nel quale si manifesta e si edifica una chiesa di pietre vive.
    Paradossalmente, proprio la interruzione generata dalla pandemia può permetterci di uscire da uno stato di
    minorità che ci ha condizionato da quasi due decenni.
  6. Azione comune: la celebrazione eucaristica
    La messa è azione comune, di Cristo e della chiesa, della assemblea e del suo Signore, al cui servizio stanno
    tutti i ministri, presbitero compreso. La comprensione di questa dinamica fondamentale, certamente
    ostacolata profondamente dalle norme sanitarie di distanziamento, ha potuto talora interrompersi, lasciando
    spazio alle ricostruzioni parziali ed errate, che pretenderebbero di interpretarne la logica in termini
    strettamente clericali. Il recupero dell’azione comune – nella sua più ampia articolazione – potrà sbloccare le
    menti, i cuori e i corpi.
  7. La gradualità: non solo eucaristia
    È vero che le difficoltà maggiori sono legate al gesto «più corporeo» del culto cristiano: il pasto comune. Il
    ricorso alle altre forme del culto cristiano (liturgia delle Ore, preghiera familiare, liturgie della parola,
    celebrazioni penitenziali, benedizioni…), divenuto necessario nella fase più acuta della crisi da pandemia, ha
    mostrato che siamo troppo monocordi: concentriamo tutto il culto cristiano nella eucaristia. Questo non è
    solo un bene. La riscoperta di una gradualità liturgica è una condizione essenziale per una chiesa davvero
    ministeriale.
  8. I soggetti cristiani e la loro «regolata devozione»
    Che tutti i battezzati siano soggetti del culto cristiano, non può essere soltanto una verità formale o
    istituzionale: perché diventi verità sostanziale occorre che la loro «devozione» si nutra di azione rituale. Che
    entrino strutturalmente nell’azione eucaristica, che facciano propria la logica della preghiera oraria e
    dell’anno liturgico; che la loro esperienza sia nutrita dal linguaggio dei riti e che mediante tale linguaggio
    possano interpretare la loro esperienza. Solo così usciremo dal modello distorto di chiesa che lo «stato di
    minorità» ci ha saputo riproporre come norma